L’espressione “giustizia riparativa” deriva dall’inglese Restorative Justice: si tratta di un modello di giustizia che nasce in Canada e Stati Uniti intorno agli anni ’70 e che propone al sistema penale un cambio di prospettiva sul reato.
Una delle prime applicazioni di questo nuovo sguardo sul reato è avvenuta in Ontario, Canada: il 28 Maggio 1974 due ragazzini confessarono di essere stati gli autori di atti vandalici che hanno provocato danni a ventidue proprietà. Il procuratore Mark Yantzi, con la collaborazione di Dave Worth, uno dei responsabili del Mennonite Central Committee in Ontario, proposero al giudice di risolvere la questione in modo alternativo: volevano organizzare un incontro tra i due ragazzini e i titolari dei beni danneggiati (le vittime), perché accordassero tra loro un risarcimento adeguato ai danni provocati.
Il giudice, inizialmente titubante, in quanto una tale possibilità era totalmente sprovvista di basi legislative, in fase decisoria dimostrò di appoggiare il progetto ordinando che un risarcimento venisse stabilito proprio a mezzo di un incontro tra offesi e offensori. Quindi i due ragazzini, accompagnati da Yantzi e Worth, incontrarono tutte le vittime, ebbero con loro un confronto che portò ad un accordo e ai danni fu infine posto rimedio.
La giustizia riparativa ha percorso molta strada da quelle prime applicazioni americane, fino ad arrivare al nostro continente, offrendo anche a noi una prospettiva diversa sul reato.
Il nostro sistema penale attuale si basa ancora su un’idea essenzialmente retributiva della giustizia: se il reato è una violazione nella norma penale, la risposta del sistema è una punizione proporzionata alla violazione. Tale concetto è raffigurato, nell’iconografia classica, dall’immagine di una bilancia. Secondo una tale impostazione, al centro dell’attenzione del sistema penale c’è l’autore del reato, l’imputato, il colpevole. La vittima del reato, invece, viene perlopiù esclusa; oppure partecipa al processo solo in quanto mera creditrice di un risarcimento danni.
Diversamente, la giustizia riparativa pone al centro la vittima come portatrice di una ferita e si pone come obiettivo la cura di quella ferita, attraverso l’assunzione di responsabilità del reo. La giustizia riparativa considera, dunque, il reato come una frattura, non solo della relazione reo-vittima (sia essa antecedente al reato o sia essa nata con il reato), ma di tutto il tessuto sociale: il fine del sistema penale, in un’ottica riparativa, sarà, dunque, la riparazione di tale frattura. Figurativamente questo concetto può essere rappresentato da un ponte: laddove il reato ha causato una rottura del “terreno” sociale, la giustizia riparativa costruisce un punto di unione, che non cancella ciò che è stato ma permette al terreno di rimanere unito.
Questo diverso sguardo consente di superare alcuni tra i punti critici del processo penale, che lo rendono, il più delle volte, inidoneo a curare davvero le ferite del reato.
Innanzitutto, se il processo penale è il luogo del non-dialogo, in cui ciascuna parte persegue il risultato a sé più conveniente, la giustizia riparativa offre un ambiente alternativo per instaurare un dialogo autentico, un vero confronto, avente lo scopo di affermare una verità condivisa su quanto accaduto e, insieme, porvi rimedio.
In questo modo, la vittima ritrova quello spazio che le veniva sottratto nel processo penale e dove essa può portare le proprie esigenze, siano esse di riconoscimento, di risposte o di ristoro: questi sono, infatti, tra i più frequenti bisogni della vittima di reato, così individuati dalla vittimologia (la branca della criminologia che si occupa delle vittime) e del tutto insoddisfatti nel sistema penale tradizionale.
Ulteriore vantaggio della giustizia riparativa è l’offerta di una risposta al crimine alternativa alla pena detentiva. È ormai chiaro a tutti gli operatori del diritto che la detenzione sia una modalità del tutto fallimentare di rispondere al reato, soprattutto considerando l’alto tasso di recidiva tra gli ex detenuti: è evidente che il carcere non svolga alcuna funzione rieducativa e preventiva della reiterazione del crimine. È indispensabile, pertanto, che un sistema penale efficiente diversifichi la propria risposta al reato, non solo con le attuali (e del tutto insufficienti) misure alternative, che sostituiscono le pene brevi meramente evitando la carcerazione, ma ponendosi come veri obiettivi la rieducazione e la risocializzazione, obiettivi che ben possono essere perseguiti attraverso l’assunzione di responsabilità che la giustizia riparativa richiede all’autore di reato.
Nel nostro Paese, i centri che offrono la possibilità di accedere a percorsi di mediazione, salvo alcune eccezioni, sono costituiti presso associazioni senza scopo di lucro e si avvalgono del lavoro di mediatori, appositamente formati, che prestano il proprio servizio a titolo volontario. Nonostante ciò, il ricorso alle pratiche riparative è in un aumento e non manca il dialogo tra i centri di giustizia riparativa e le istituzioni, al fine di definire protocolli e prassi di accesso alla mediazione penale sempre più definite e strutturate.
La richiesta di accedere ad un percorso di mediazione penale è aperto a tutte le parti processuali, a prescindere dal titolo di reato, e può avvenire da parte dell’UEPE (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna), degli Avvocati o della Procura della Repubblica. Tuttavia, un incontro di mediazione reo-vittima avverrà solo laddove entrambe le parti vi acconsentano spontaneamente.
Avv. Veronica Pizzolato